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Dino, una bella storia di altri tempi

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La Fiat Dino 2400 Spider Pininfarina

Una vettura commercializzata da due costruttori, Ferrari e Fiat, realizzata da tre carrozzieri – Scaglietti, Pininfarina e Bertone – nelle versioni Coupé e Spider

Questo scritto è dedicato alla storia ed alla genesi della “Dino”, un’auto di serie, dalla storia più unica che rara. Una vettura commercializzata da due costruttori, Ferrari e Fiat, realizzata da tre carrozzieri – Scaglietti, Pininfarina e Bertone – nelle versioni Coupé e Spider. Caso più unico che raro, nel panorama automobilistico, la stessa Fiat ha incaricato due carrozzieri per costruire separatamente le due versioni Spider e Coupé: più precisamente Bertone, per realizzare la versione Coupé, e Pininfarina, per la versione Spider. All’inizio, il minimo comune denominatore di questo trittico di auto fu un motore 2 litri V6 bialbero da 65° (angolo scelto per  limitare gli ingombri verticali, abbassare il baricentro, e meglio alloggiare i 3 carburatori doppio corpo fra le due testate) rispetto ad un motore a V da 60°. Il progetto iniziale di questo motore è solitamente attribuito ad Alfredo Ferrari (detto Dino), figlio di Enzo, che fu un valente studente di ingegneria meccanica dell’università di Ginevra: si vocifera che portò questo fortunato motore come tesi di laurea, allo scopo di motorizzare le Ferrari che correvano in pista. Un grande aiuto a Dino fu sicuramente fornito da Vittorio Jano, la cui grande esperienza consentì di gettare le basi di quello che sarà, in futuro, un motore tanto performante quanto leggendario.

Dopo la prematura scomparsa di Dino nel 1956, a soli 24 anni per una grave malattia, Enzo Ferrari per onorare il nome del figlio iniziò ad intitolare a Dino una serie di auto da corsa. La capostipite fu, nel 1956, la Ferrari 156 F2 motorizzata da un V6 65° di 1539,85 cmc, seguita, l’anno dopo, dalla Ferrari 196 F1 motorizzata da un V6 65° di 1983,73 cmc.

Enzo Ferrari, un personaggio concreto quanto ambizioso, voleva una sola cosa: affermare la supremazia tecnico sportiva delle sue auto. Ferrari, per finanziare le sue imprese sportive, usava il ricavato delle vendite delle auto stradali, creando anche una sezione “Clienti”, per potere sviluppare e testare la meccanica estremamente sofisticata della propria produzione corsaiola.

Emblematico, in merito, il caso della Ferrari 196 Dino Fantuzzi Spider, una vettura sport carrozzata spider, che montava lo stesso motore della Ferrari 196 F1 motorizzata da un V6 65° di 2 litri di cilindrata.

Con il passare degli anni, le vetture intitolate a Dino furono numerosissime e spaziarono dalle F1 alle Sport e Sport Prototipo, fino a quando, nel 1965, il nuovo regolamento FIA prescriveva per la Formula 2 che il motore dovesse avere una cilindrata massimo di 1,6 litri, non più di 6 cilindri e derivare da un’auto costruita in almeno 500 esemplari. Per Ferrari, produrre un motore in 500 esemplari poteva non essere un problema. Ma la necessità di costruire almeno 500 esemplari di auto male si sposava con le dimensioni della struttura della Ferrari che produceva auto stradali.

Come sempre il “Drake” non si perdette d’animo e bussò alla porta della Fiat ottenendo da Gianni Agnelli l’aiuto necessario, grazie al noto interessamento del capo della Casa torinese per il mondo dello sport automobilistico (e non solo quello…).A quei tempi, in Fiat si pensava di sostituire la vecchia Fiat 2300 Coupé, oramai considerata obsoleta con il suo 6 cilindri in linea: purtroppo non c’era in vista la progettazione di una nuova motorizzazione adeguata per competere con le altre GT di serie di quella categoria. Conseguentemente, la proposta di Ferrari di unire il motore “Dino” (già esistente e ben collaudato) a delle auto prodotte dalla Fiat, capitava nel momento più propizio per concretizzare tale sostituzione.

Fu così che ai primi di marzo del 1965 si giunse all’accordo fra Ferrari e Fiat creando una Joint Venture per la realizzazione di alcune auto aventi in comune il motore “Dino” V6 65° bialbero, derivato da quello progettato negli anni ’50 dal figlio di Enzo. Venne così proposta la realizzazione di un moderno V6 bialbero da 2 litri, che divenne la naturale evoluzione del motore “Dino” già abbondantemente collaudato in precedenza sulle vetture da corsa della Ferrari.

Al fine di separare la consolidata tradizione dei 12 cilindri a V Ferrari dal “piccolo” 6 cilindri a V “Dino”, Ferrari decise di realizzare una fabbrica ad hoc intitolandola al figlio Dino. Nacque così la “Dino”, una fabbrica che produsse la Dino 206 GT nella versione Coupé su design della Pininfarina, realizzata dalla carrozzeria Scaglietti, la storica carrozzeria Ferrari.

Contemporaneamente in Fiat, quale conseguenza dell’accordo con la Ferrari per la costruzione di un numero considerevole di motori, nasceva la necessità di realizzare un gran numero di auto sportive, sia nella versione Coupé che nella versione Spider e, per la prima volta, senza l’obbligo di dovere partire da un modello “base”, come ad esempio, era già accaduto in precedenza per altre vetture a larga diffusione, come la Fiat 850.

Al fine di evitare di sovraccaricare di lavoro un solo carrozziere e, fondamentalmente, per raggiungere al tempo stesso in breve tempo il traguardo delle 500 vetture da costruire e potere garantire uno standard di qualità elevato, non essendoci un telaio base esistente da cui partire, ma solamente un motore di cui se ne conoscevano le dimensioni geometriche principali, si decise di spartire ed assegnare a due distinti carrozzieri l’incarico della realizzazione delle due versioni Spider e Coupé. Venne quindi assegnata alla Carrozzeria Pininfarina la realizzazione della Fiat Dino Spider in 500 esemplari per la omologazione ed alla carrozzeria Bertone la realizzazione della Fiat Dino Coupé. Fu una combinazione felice, che lasciò liberi ambedue i carrozzieri di esprimere al meglio le loro capacità creative e sfruttando al meglio le proprie capacità industriali.

Per tutti e tre i costruttori (Dino, Pininfarina e Bertone) fu ingegnerizzato un motore unico il cui incarico progettuale fu affidato all’ingegnere Giancarlo Bussi, che partendo dal vecchio motore V6 da 65° delle varie “Dino”, per motivi di leggerezza (lo scopo primario era per la F2), fu quello di usare la lega leggera per la testata ed il basamento, con canne cilindro riportate in umido, una distribuzione bialbero a 4 camme in testa, con cilindrata 2 litri per le auto stradali e 1,6 litri per la F2. Mutuata dalle corse fu anche l’accensione elettronica “Marelli – Dinoplex”, ma non utilizzata nelle prime 500 auto prodotte per ottenere l’omologazione, così come l’alimentazione a tre carburatori doppio corpo Weber disposti trasversalmente fra le due testate del motore.

La Pininfarina, incaricata della costruzione delle prime 500 auto, optò per uno Spider (2+1) dal passo corto (solo 2256 mm.), le forme tondeggianti, molto in voga negli anni 60’ e 70’, erano abbinate ad una meccanica classica, con il motore anteriore collegato tramite il cambio a 5 marce al differenziale autobloccante al 25%, montato sul ponte rigido posteriore. Gli interni eleganti e la dotazione di 4 freni a disco, con servofreno, completavano la ricca dotazione di questa bella spider che, grazie al potente motore bialbero (2 per bancata) erogava la potenza di 160 CV a 7.200 g./min. in modo poco lineare, anche a causa della sua destinazione corsaiola. Il che rendeva questa spider scorbutica e non facile da guidare in condizioni limite, considerando anche l’ulteriore penalizzazione costituita dal ponte rigido rispetto ad una soluzione con ruote indipendenti.

La carrozzeria Bertone, non vincolata dalla pressante necessità delle 500 auto da produrre, presentò l’anno successivo una comoda Coupé dalla linea più elegante che sportiva. La coupé utilizzava, ovviamente, la stessa meccanica della Spider, ma era caratterizzata da un passo allungato a ben 2550 mm. al fine di assicurare un’abitabilità molto confortevole per 4 persone. Ovviamente, con il passo maggiorato, l’auto aveva un peso maggiore, 1280 Kg. contro i 1150 della spider, il che conferiva alla Coupé, un comportamento meno nervoso della sorella spider, ma che comunque consentì alla Bertone di aver un discreto successo con oltre 6mila esemplari costruiti nei 5 anni di produzione di questo modello.

I due modelli, pur se dotati di un motore potente ma poco elastico (la coppia massima era a 6000 g/min), furono oggetto nel 1969 di sostanziali miglioramenti. La cilindrata fu aumentata a 2400 cmc per avere più potenza (180 cv al posto dei 160 cv della 2 litri) e potere spostare la coppia massima verso il basso a 4600 g./min, rendendo il motore più elastico ed utilizzabile. Al fine di porre rimedio ad alcuni inconvenienti della dilatazione termica al monoblocco, causati dall’impiego della lega leggera, fu deciso di utilizzare l’impiego della ghisa per il monoblocco, rendendolo così più rigido anche se più pesante. Chicca vezzosa: i motori riportavano la scritta “Dino” sui coperchi delle valvole.

Per migliorarne la guidabilità, il ponte rigido posteriore fu sostituito da sospensioni a ruote indipendenti, già adottate sulla ammiraglia Fiat 130. Data la bella linea di ambedue le auto, le modifiche estetiche furono limitate a nuovi cerchi, la calandra in nero opaco con lo stemma spostato sul cofano motore, gli interni ridisegnati con consolle centrale e finiture ancora più accurate.

Al Salone di Torino del 1969 venne presentata la Dino 246 GT,principalmente per contrastare la Porsche 911che al pari delle sorellastre Fiat Dino 2400 beneficiava del nuovo motore 2400 V6 65°, che però sulla Dino 246 veniva montato trasversalmente in posizione centrale. Pur concedendo qualcosa al peso, ma con lo scopo di migliorare le prestazioni torsionali del telaio, la carrozzeria fu realizzata in acciaio, lasciando l’impiego dell’alluminio solamente per le portiere ed i cofani. Al fine di migliorarne la stabilità, fu incrementato il passo di 58 (mm) mentre, per migliorarne l’abitabilità, l’altezza fu incrementata di 76 mm. Tutte queste modifiche contribuirono ad incrementare il peso di oltre 200 Kg, che però fu abbondantemente compensato dall’incremento di potenza del nuovo motore, che quindi lasciò le prestazioni immutate di questa piccola e filante coupé, se non addirittura migliorarle.

A livello estetico, le differenze furono minime: la più appariscente fu il tappo del serbatoio che veniva inglobato nella carrozzeria e coperto da uno sportello; per il fissaggio delle ruote, fu abbandonato il mono gallettone per adottare 5 bulloni. Per la Dino 246 GTS, la versione Spider, fu adottata una soluzione tipo “Targa” con il tettuccio rigido amovibile ed un  arco facente funzioni di “Roll Bar” alle spalle del pilota e del passeggero.

La favola di questo bellissimo motore non finisce qui, un propulsore nato per le competizioni era giusto che fosse destinato a chiudere in bellezza con le competizioni, andando ad equipaggiare la Lancia Stratos, “La Bete a Gagner”, come la definivano gli avversari francesi di Alpine Renault, nella più performante versione 6V 24 Valvole, alimentato ad iniezione, capace di erogare ben 320 cv a 8500 g./min.

Anche in questo caso, Enzo Ferrari dimostrò fin dove si poteva spingere quando voleva qualcosa, imponendo alla Lancia una condizione capestro per la fornitura dei motori 2400 V6 montati trasversalmente sulla Dino 246 GT da installare sulla nascitura Stratos.

All’epoca, nel 1972, la Ferrari era in lizza con l’Alfa Romeo per il mondiale Marche. Doveva correre la Targa Florio e Ferrari chiese che Cesare Fiorio e Sandro Munari fossero “prestati” dalla Lancia alla Ferrari per potere organizzare e correre la 56^ Targa Florio, una gara di quasi 800 Km su di un percorso lungo 72 Km da  compiere 11 volte: praticamente, una competizione per vetture sport e sport prototipo che, per il tipo di strade da percorrere, assomigliava più ad un rally che ad una competizione su pista. Fu una mossa vincente: l’organizzazione di Cesare Fiorio e della sua rete di radioamatori consentì all’equipaggio formato da Arturo Merzario e Sandro Munari di portare alla vittoria la Ferrari 312 PB battendo in volata l’Alfa Romeo 33TT/3 di “Nanni” (Giovanni) Galli – Helmut Marko. Quest’ultimo, malgrado l’impegno profuso e pur avendo fatto segnare all’arrivo il giro (l’11°) più veloce in 33’41” ad una media di 128,253 Km/h, riuscì a recuperare oltre 1 minuto sul distacco iniziale, ma arrivò comunque secondo a soli 16 secondi dalla Ferrari vincitrice. Lo stesso Merzario riconobbe che, senza le continue informazioni sul distacco da Helmut Marko, non sarebbe riuscito a gestire il vantaggio che aveva al passaggio dell’inizio dell’ultimo giro.

Questa è la bella storia del sogno di un giovane ingegnere e del suo motore, utilizzato per oltre 25 anni di competizioni e non.

Testo e foto di Flavio Scopinich 

Alcune tra le foto pubblicate sono state reperite in rete